A cosa servono gli amori infelici

Gilberto Severini è autore che racchiude in sé la levatura intellettuale e umana propria degli scrittori del secondo Novecento. Tra i critici che hanno analizzato le sue opere troviamo penne del calibro di Massimo Raffaeli, Fulvio Panzeri e Pier Vittorio Tondelli che ha definito l’autore marchigiano “il più sottovalutato d’Italia”. In effetti il nome di Severini non figura mai nelle classifiche più o meno autorevoli dei libri e degli autori più letti: l’ennesima occasione mancata per arricchirsi leggendo.

Le occasioni mancate sono anche le protagoniste di A cosa servono gli amori infeliciromanzo finalista al Premio Strega 2011. Se considerassimo il titolo una domanda, sarebbe difficile fornire una risposta netta; ma a ben guardare, manca il punto interrogativo. Severini ci pone di fronte a un dato di fatto, a un’affermazione che sebbene non ricerchi una risposta apre senza dubbio a una profonda riflessione.

Il pretesto per avviare la meditazione è dato dalla degenza in ospedale di un uomo cinquantottenne che attende di affrontare un delicato intervento al cuore. Si tratta di un impiegato generico presso un non meglio precisato ente semi-pubblico; il suo lavoro consiste nello scrivere discorsi di saluto, presentazione e ringraziamento per i presidenti che si succedono, anno dopo anno, mentre lui è sempre lì al suo posto. L’attesa dell’operazione è accolta come il momento ideale per potersi dedicare alla scrittura di racconti erotici, alla stesura di appunti e riflessioni per parlare a se stesso.

In linea con il suo modo di essere e senza tradirsi, il degente rifiuta di ricevere visite: non sopporterebbe né d’essere costretto a tollerare la presenza di chi di solito lo ignora e andrebbe a trovarlo perché lo richiede la circostanza, né – soprattutto – potrebbe sostenere il peso di un ennesimo probabile addio. Per lui l’attesa dell’operazione «è l’occasione non rinviabile per parlarsi con franchezza».

Con lo sguardo distaccato e l’analisi dettagliata dei movimenti dell’animo propri di certa scrittura novecentesca, Severini ripercorre le tappe di una vita, o meglio la mappa delle opportunità perse che forse avrebbero portato quell’uomo a vivere meglio: «… se il mio finale è questo, ho trascurato davvero la parte migliore della vita?». La grande occasione mancata è quella del ’68, anno di tumulti e sconvolgimenti a cui lui ha assistito da vicino: mentre i giovani facevano la rivoluzione, i poliziotti con i caschi blu lo proteggevano perché, da uomo rispettabile e ben vestito qual era, rappresentava per la nuova generazione il sistema da abbattere. Quanto il suo aspetto abbia influito nella sua vita appare chiaro solo adesso che indossa una camiciola bianca da malato in attesa d’essere operato. L’abito su misura, i mocassini inglesi testa di moro, il blazer blu. Nient’altro che un travestimento per distinguersi dai suoi colleghi che, semplicemente, lo hanno ignorato per tutti quegli anni di lavoro, e per coltivare l’illusione di preservare una vita parallela fatta almeno di buon gusto e rispettabile apparenza. Una maschera per sviare i sospetti di chi lo ritiene un uomo sessualmente ambiguo e represso, ma che non penserebbe mai che dietro quell’apparenza distinta possa celarsi un amante di «cose rapide, cose sordide, cose da consumarsi nel sottoscala»Per sfuggire, se non l’umiliazione, almeno la passione.

Lo si potrebbe definire un inetto alla vita, come i personaggi sveviani, o un incapace di adattarsi alle convenzioni, combatterle, come egregiamente ci ha mostrato MoraviaSeverini attraversa la vita di quest’uomo senza nome, segnato dalla vaghezza dei sentimenti provati, delle timide relazioni tessute, del lavoro sbiadito e insignificante. Lo fa attraverso tre lettere: nella prima il protagonista si rivolge al collega Fabrizi, l’unico che gli abbia sinceramente dimostrato affetto ignorando le fastidiose voci di corridoio dell’ente semi-pubblico, voci da cui trapelava velatamente la malizia e la distanza causate dalla sua sospetta omosessualità. La seconda è indirizzata a Don Gabriele, il sacerdote tanto ammirato almeno fino a quando non ha voluto convincerlo a considerare l’amicizia un dono fisico, sessuale, trattative estenuanti terminate in un sofferto turbamento infantile mai sopito. La terza lettera è rivolta a un amico non meglio identificato (ancora la vaghezza), forse inventato, o innominato per garantirgli una certa “protezione”. A lui l’uomo affida le somme della sua malinconica e amara riflessione, consapevole di aver sfiorato la vita senza mai averla realmente vissuta, figlio di un’epoca in cui le madri, sfuggite e sopravvissute alla guerra, hanno allevato i propri figli nel nome della sicurezza, della protezione e del riserbo, ma anche all’insegna del porno. Non a caso le lettere sono scritte nel 1999, anno che segna il passaggio al ventunesimo secolo, rappresentato da una generazione senza freni, combattiva e disinibita.

Il personaggio di A cosa servono gli amori infelici avverte forte il gap generazionale, consapevolezza che concorre ad acuire la sua inadeguatezza al mondo a cui tenta invano di aggrapparsi ricorrendo ad aforismi, film e canzoni cardine della sua epoca, e dunque incapaci di rispecchiare i tempi moderni, ma esaustivi nell’illustrare i moti del suo animo.

Un’ultima nota voglio riservarla, oltre che alla scrittura, lineare, controllata e puntuale, alla forma epistolare. Severini non è nuovo al genere, a questo appartiene Sentiamoci qualche volta (1984), e come una lunga lettera si presenta anche quello che è considerato il suo capolavoro, Congedo ordinario (1996). Una forma intima, privata, capace di mettere in luce i segni di un’umanità che parla a tutti.

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